Oggi AIL è un grande albero sotto il quale i pazienti e le famiglie trovano riparo. Ma per continuare a crescere non basta il cuore, serve anche una grande professionalità.
Sono la matricola numero due in AIL Nazionale, la seconda in ordine di tempo entrata in questa grande famiglia, nel 1989. Ero una studentessa di Lingue e Letterature Straniere Moderne e tornavo da un’esperienza di un anno in Inghilterra. Durante gli studi facevo dei lavoretti per mettere da parte qualche soldo e potermi concedere gli sfizi tipici dell’età. Fu così che mio padre mi parlò di AIL e della possibilità di lavorare qualche mattina a settimana in segreteria, un impegno che mi avrebbe permesso di proseguire gli studi.
Mi ricordo ancora quando entrai per la prima volta nella sede dell’Associazione, che al tempo era in Via Benevento 6 a Roma, una stanzetta accanto alla radioterapia all’interno del Reparto di Ematologia dell’Umberto I. Incontrai il Prof. Mandelli, che frequentavo fin da piccola, e mi accorsi subito che il suo atteggiamento era cambiato: era molto rigoroso e mi dava poca confidenza, perché ormai non ero più la Luisa che conosceva, ma una dipendente alla quale si richiedeva precisione e puntualità.
Da poco venne organizzato un importante concerto di beneficenza alla Sala Nervi in Vaticano con José Carreras, il tenore che rientrò sulle scene dopo essersi ammalato di Leucemia, e AIL disponeva di una quantità sufficiente di fondi per strutturare una segreteria e un coordinamento centralizzati. Mi trovavo, insomma, nel posto giusto al momento giusto. Venni catapultata in un mondo fatto di eventi di grande impatto con raccolte fondi molto importanti che ci permisero di crescere in fretta. Mi ricordo ancora Piccoli e Grandi Fan con Sandra Milo, la prima edizione della Partita del Cuore, Angeli sotto le Stelle e Trenta Ore per la Vita, solo per citarne alcune. All’epoca le donazioni venivano effettuate con le promesse di pagamento: la gente telefonava e si impegnava a versare una certa somma e il giorno dopo andava alla posta più vicina e onorava l’impegno preso. Una cosa che oggi sarebbe impensabile.
La cosa più bella di quel periodo e che mi ha segnato di più era il contatto costante con i pazienti. Da una parte stringevo la mano di personalità di grande rilievo, organizzando eventi di rilevanza nazionale, ma dall’altra avevo un rapporto diretto con loro, le persone che più di tutti avevano più bisogno del mio lavoro. Questa è stata la benzina del mio motore. A quel tempo la maggior parte dei malati non sopravviveva e soffriva molto durante le terapie. Per me poter contribuire anche in minima parte a migliorare e, un giorno, cambiare la loro vita era diventata una missione. Così quello che doveva essere un impegno di poche ore la mattina si trasformò nel mio impiego.
All’inizio tutti facevamo tutto, ma nel tempo la carta vincente è stata la formazione e la professionalizzazione costante. Lo scenario del mondo No Profit, infatti, è cambiato radicalmente e bisogna essere sempre sul pezzo per non perdere il passo. Abbiamo quindi contribuito a costruire, sfida dopo sfida, le radici del grande albero che è oggi AIL. Il nutrimento necessario di questo organismo sono la passione e la solidarietà, ma anche la professionalità: senza la costruzione di profili sempre più specializzati e aggiornati oggi sarebbe impossibile continuare a vincere nuove battaglie.