I nostri medici migliori dovrebbero poter ritrovare le motivazioni che oggi, per tante ragioni, negli ospedali sono venute meno e dedicare tempo ed energie ai giovani. E tutti i giovani dovrebbero poter contare sul tipo di formazione che hanno avuto gli studenti di Mandelli a Roma.
«Oggi ci direbbero che è illegale fare un turno senza essere autorizzati, ma allora pensavamo solo a non lasciare soli i nostri malati. E i nostri medici facevano sacrifici enormi», racconta Franco Mandelli. Quando cominciò a mettere in piedi l’Ematologia, lo fece in pratica con i volontari: come ricorda lui stesso, solo «una minima parte del personale era pagata». I turni si coprivano così.
Certo, attualmente è impensabile, ma dovremmo poter ritrovare qualcosa di questo spirito. Come? Siamo noi a dover cambiare. I nostri medici migliori dovrebbero poter ritrovare le motivazioni che oggi, per tante ragioni, negli ospedali sono venute meno e dedicare tempo ed energie ai giovani. E tutti i giovani dovrebbero poter contare sul tipo di formazione che hanno avuto gli studenti di Mandelli a Roma. Per imparare la Medicina, certo, è la cosa più importante. Ma anche per vedere qualcuno che dei suoi malati si occupa ventiquattro ore su ventiquattro. E che dà loro perfino il numero di cellulare, se ce n’è bisogno.
Adesso le leucemie si curano (tranne in momenti molto particolari, come quando si è appena effettuato il trapianto di midollo) anche a casa e Mandelli, con la sua sensibilità e la sua capacità di mettersi nei panni dell’altro, in questo è stato uno dei primi.
Occuparsi della sofferenza dei malati non è una sinecura, ma una parte fondamentale del nostro lavoro di medici, forse la più importante. E c’è altro di cui dobbiamo occuparci, oltre che del dolore: se le cose prendono una brutta piega e non esistono soluzioni, per quanto ci si possa prodigare, dobbiamo capire quando è il momento di fermarci. Non è facile, ma è lì che si distingue il bravo medico.
Chi è senza speranza però è fragile, si attacca a tutto. Vuole la "cura Di Bella", la "cura Vannoni", le cose dei ciarlatani, insomma, pur di guarire. Ed è più che comprensibile. «La legge imporrebbe di dire sempre tutta la verità, anche se non vi sono speranze, ma a mio avviso c’è qualcosa di spietato e inumano in questo approccio», dice Mandelli. È proprio così. Non può esserci buona cura senza che paziente e medico stabiliscano un patto di collaborazione fondato sulla fiducia reciproca, e questa, da che mondo è mondo, si basa sulla sincerità.
Patologie anche gravissime si avvantaggiano in modo determinante della partecipazione attiva del malato al suo programma di cura. Lo dimostra uno studio condotto da ricercatori canadesi, che ha preso in esame 21 pubblicazioni recenti. Se un paziente partecipa in prima persona alla terapia, è più accurato nel riportare al medico fatti o circostanze che possono risultare determinanti per la diagnosi, è più attento nell’assunzione dei farmaci e può prendere decisioni sul suo futuro o sul suo stile di vita che non prenderebbe se non sapesse tutto. E non è la sola ragione per cui il medico deve dire la verità.
Deve farlo anche per il rispetto dovuto al paziente come persona. Ma come dare la notizia? In modo onesto, prima di tutto, e usando grande garbo e sensibilità, senza mai togliere la speranza. Mettere tutto questo per iscritto è più facile che farlo davvero, anche se alcuni ci riescono. Franco Mandelli è uno di loro. Se tutti gli studenti di Medicina avessero la possibilità di leggere questo libro ne sarebbero contagiati, e per il loro futuro di medici sarebbe la miglior malattia infettiva che potrebbero contrarre.
Ricordo del prof. Franco Mandelli a cura di Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri
Tratto dalla prefazione del libro "Curare è prendersi cura".